Quando uno scrittore prolifico come Dumas (l’omonimia non tragga in inganno, è all’autore de Les trois mousquetaires che ci si riferisce), un pittore del calibro di Louis-Godefroy Jadin e un vivace quadrupede di nome Milord trascorrono cinque lunghi giorni su una barca, in quello specchio cristallino che è il mare delle Eolie, non può non nascere qualcosa d’immortale. Qualcosa che sopravviva al logorio e all’oblio del tempo, privilegio concesso solo alla vera arte. Così, l’escursione in barca si trasforma in un’occasione per documentare la bellezza paradisiaca dei luoghi visitati, una fotografia fatta d’inchiostro e di pagine e d’immagini sapientemente evocate. Un diario di viaggio che, talvolta, tende verso la frivolezza, che si abbandona a una narrazione volutamente agile e leggera, a un periodare breve e di facile fruizione. Un reportage più incline alla descrizione delle pietanze locali o al racconto di miti e credenze, sebbene non manchino accenni alla vita quotidiana degli isolani. Dumas trova incomprensibile l’ostinato attaccamento degli abitanti di Alicudi verso la propria terra, una terra inospitale e selvaggia, lontana anni luce dagli agi dell’ambiente parigino. Quale arcana alchimia? Quale strano magnetismo costringe gli abitanti a vivere su un vulcano spento? Quale forza misteriosa li trattiene? Sono tutti quesiti che non trovano risposta. Il viaggio prosegue verso Lipari. È il 1835 e accedere sull’isola è meno agevole di quanto si possa immaginare. Come si legge nel capitolo dedicato alla maggiore delle sette isole, (La montagna di piuma): «Le autorità locali, alle quali avemmo l’imprudenza di ammettere che non venivamo per il commercio della pietra pomice, unico commercio dell’isola, e che non capivano che si potesse capitare a Lipari per qualche altro motivo, non volevano lasciarci entrare a nessun costo».
Cionondimeno, Dumas e la sua brigata (che contemplava anche il fido nocchiero Arena, il capitano della barca che ispirato il titolo originale dell’opera) riescono a visitare Lipari e il celeberrimo “organo di Eolo”. Anticamente si credeva che l’organo di Eolo (o arpa eoliana) emettesse suoni diversi in relazione ai venti che s’insinuavano nella cavità. A seconda del suono gli isolani riuscivano a capire quale degli otto venti spirasse e da quale direzione provenisse. La leggenda narra che lo stesso Eolo, dio del vento, costruì questo atipico strumento musicale, donandolo a Ulisse. Dumas, affascinato dal mito, dedica a quest’ultimo pagine entusiaste, tanto da indurre i traduttori dell’opera a titolarla: Dove il vento suona.
Ultima tappa del corto viaggio sentimentale, per utilizzare un’espressione di sveviana memoria, è Stromboli (Una corsa sulla brace), secondo Dumas l’isola più “gentile” in virtù della presunta cortesia del vulcano: Stromboli è «il vulcano più cortese della terra» per via del rispetto che riserva a coloro che dimorano sulle sue pendici.
di Deborah Tagliarini
Data notizia: 1/23/2015
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